BELLUM MUNDANUM PRIMUM

Il latino e la Grande Guerra

di Marco Cristini

laureato in Filologia Moderna presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore

 

INTRODUZIONE

Dall'Impero Romano fino all'inizio del Novecento il latino è rimasto una materia fondamentale nell'educazione superiore di ogni europeo. Dall'Italia alla Svezia, dalla Spagna alla Russia, conoscere il latino significava avere accesso non solo alla letteratura classica, ma anche ai testi di teologia, matematica, medicina e botanica. Così non sorprende che all'alba della Prima Guerra Mondiale in molti padroneggiassero questa lingua a tal punto da essere in grado di comporre poesie o brevi narrazioni. Le opere latine (o, per essere più precisi, neolatine) scritte durante la Grande Guerra [1] hanno una caratteristica unica, che non si trova in nessun altra lingua europea: sono transnazionali. Infatti scrittori tedeschi, inglesi, belgi, americani e italiani scrivevano nella stessa lingua, utilizzando le stesse figure retoriche e gli stessi modelli (classici e cristiani). Per questo la Prima Guerra Mondiale, nelle loro opere, appare non tanto uno scontro di civiltà, quanto una guerra lunga civile. In questo breve intervento presenterò alcune opere latine composte da soldati, religiosi e civili disponendole in ordine cronologico. Gran parte di questi testi sono poesie, scritte in metri classici, ma ci sono anche lettere e articoli di giornale. Per motivi di tempo analizzerò solo i più significativi di questi documenti e non riporterò integralmente i testi, ma solo alcuni brani, tradotti e contestualizzati.

1914: DICAM HORRIDA BELLA

Le luci si stanno spegnendo in tutta Europa, non le vedremo più riaccendersi durante la nostra vita” [2]. Il ministro degli esteri britannico Edward Grey pronunciò queste parole il 3 agosto 1914, il giorno prima prima dell'ingresso in guerra dell'Impero Britannico. In tanti si aspettavano un conflitto breve, di qualche settimana; solo in pochi avevano capito che la guerra sarebbe durata anni. L'inizio delle ostilità fu subito segnato, sul fronte occidentale, dalla violazione della neutralità del Belgio. L'esercito del Kaiser Guglielmo II si aspettava di incontrare una resistenza poco più che simbolica, ma l'esercito “da operetta” di re Alberto resistette con coraggio. Le truppe prussiane, per spezzare la resistenza dei belgi, adottarono la strategia del terrore, con fucilazioni di ostaggi, saccheggi e massacri di civili. A frapporsi tra i belgi e la furia degli invasori furono spesso i religiosi, i soli che osavano denunciare le atrocità commesse. Emile Gouffaux (1840-1924), sacerdote belga di Halle, descrive con due toccanti strofe la terribile situazione dei suoi concittadini.

E, come una preda per l'avvoltoio rapace,

così il Belgio è dato in pasto all'orda nemica:

Ahimè! Cosa non ritiene lecito fare,

quella torma di assassini?

Devastano le città, saccheggiano gli edifici

distruggono i luoghi di culto col fuoco,

incatenano i cittadini e, dopo averli uccisi,         

bruciano le loro case [3].

Lo stupro del Belgio, come venne chiamato dai contemporanei, mostrò alle nazioni europee la brutalità dell'esercito prussiano e fu un potente incentivo a continuare la lotta fino alla vittoria, viste le terribili conseguenze della sconfitta. 

Le prime battaglie furono affiancate da una capillare propaganda. Nel corso del conflitto vennero scritti diversi carmi latini che potremmo definire propagandistici. Uno dei primi (composto nell'ottobre 1914) si intitola Carmen Bellicum (Poesia militare) e contiene un motto molto usato dai tedeschi durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale: Gott mit uns (Dio è con noi). L'ultima strofa della poesia, infatti, recita:

Dio è con i tedeschi,

è il solo arbitro della nostra sorte.

Se ci concederà un po' di fortuna,

nessuno dei nostri vacillerà.

Viva l'imperatore! [4]

È interessante notare che questi cinque versi, anche in latino, si aprono con l'invocazione a Dio e si chiudono con un saluto all'imperatore, in questo caso Guglielmo II [5]. Questo non deve stupire, infatti Gott mit uns era il motto dei re di Prussia. Slogan di proganda come questo svolgevano una funzione importante nel mantenere alto il morale dei cittadini, specialmente quando erano chiamati a grandi sacrifici. Le carneficine dei primi mesi di guerra, infatti, resero necessario richiamare nuove leve al fronte, tra cui i ragazzi che ancora frequentavano la scuola. Questo è testimoniato da un carme di Friedrich Holler (1867- 1951), professore nel liceo di Norimberga. I suoi allievi improvvisamente passarono dalle mani della Musa (simbolo delle lettere) a quelle di Bellona (dea della guerra).

Voi dovete lasciare le aule della scuola

dovete lasciare la madre, il padre, la sorella,

il fratello, gli amici e i compagni,

né vi può accompagnare la cara fidanzata.

Non sarà più la Musa a reggere placidamente

le vostre menti, bensì Bellona vi rapisce

nel duro esercito per lanciarvi contro

le schiere nemiche, in mezzo alle stragi. [...]

Questa età ferrea vi chiama:   

diventate quindi anche voi uomini

di ferro e non abbiate paura, da vili,

di morire per la patria

Morire per la patria era il destino che attendeva moltissimi giovani negli ultimi mesi del 1914. Le battaglie, infatti, continuarono senza sosta per tutto l'autunno e il numero di morti, feriti e prigionieri crebbe. Riguardo ai prigionieri c'è una testimonianza davvero unica: una lettera latina scritta da un sacerdote francese, preso prigioniero assieme alla sua divisione il 7 settembre 1914, quando i tedeschi espugnarono la città di Maubeuge. Il religioso, in una missiva a un confratello, descrive le condizioni della sua prigionia:

Il campo in cui siamo rinchiusi, chiamato in tedesco Friedrichsfeld, non è molto distante dalla città di Wesel, sul Reno inferiore e ha la forma di un quadrato con lati di circa ottocento metri. È circondato da pali e da reti con filo spinato. Gli ingressi sono sorvegliati dai soldati tedeschi, comandati da ufficiali in grado di parlare diverse lingue. Io e i miei commilitoni siamo stati portati qui a settembre assieme al presidio di Maubeuge, dopo la resa della città. La mia divisione ha subito molte perdite durante l'assedio; infatti nello spazio di pochi giorni ha perso quasi la metà dei suoi effettivi, tra morti e feriti. Inizialmente il numero dei prigionieri era di circa quindicimila, quasi tutti francesi. Poi sono arrivati anche alcuni belgi, inglesi, indiani e africani, cui poco fa si sono aggiunti tremila russi, che credo siano originari della Siberia; infatti, mentre gli altri soffrono per il freddo, loro si lamentano per il caldo eccessivo [7].

Nel seguito della lettera il sacerdote dipinge condizioni di detenzione abbastanza buone: i tedeschi trattano in modo umano i prigionieri e permettono loro di assistere alle funzioni religiose. Per Tibeauts e i suoi compagni la guerra, insomma, è finita, ma per milioni di altri soldati continua.

1915: LINQUENDA TELLUS ET DOMUS

I combattimenti non si fermarono durante i primi mesi del 1915. A febbraio, infatti, von Hindenburg decise di attaccare nuovamente i russi sui Laghi Masuri, dove li aveva già sconfitti nel settembre 1914, e ottenne un grande successo, che è celebrato da un carme latino di Friedrich Holler.

Vittoria, vittoria!

Trionfo, gloria!

Hindenburg ha vinto

di nuovo gli eserciti

dei barbari russi

ai Laghi Masuri.

Esultiamo con gioia,

ora dobbiamo ringraziare

di cuore Hindenburg

e dobbiamo lodare

le nostre forti truppe!

Gioiamo, gioiamo! [8]

In questo carme i russi sono considerati dei barbari: era uno degli slogan preferiti della propaganda prussiana, che terrorizzava i tedeschi dipingendo orde di sanguinari cosacchi pronti a dilagare per l'Europa. In quei mesi gli alleati dicevano lo stesso dei tedeschi, che, non a caso, dagli inglesi erano chiamati con disprezzo unni (the Huns). La Prima Guerra Mondiale fu decisa dalle battaglie campali, ma anche dai nuovi strumenti bellici che l'industria aveva messo a disposizione. Uno dei più rivoluzionari fu di certo l'aeroplano. Alma Roma, un periodico latino pubblicato in Vaticano, si occupa di questa nuova arma nel numero di gennaio 1915 con un articolo intitolato De aviatione. Dopo una breve storia degli aerei (in latino aviatores), si descrivono gli effetti di un bombardamento: 

Aviatores diversis nominibus atque formis, ex nomine potissimum eorum auctorum in ruinam hostium atque formidinem in altum se se extollunt, et impetu velocissimo vel inter nubila se condunt, atque illinc tunc super acies, tunc super civitates munitissimas ignescentes globos rapidissime immitunt. Quot mala uno eodemque tempore vel inter copiarum ordines, vel in ipsis urbibus!

Gli apparecchi volanti, che hanno nomi e forme diverse, derivanti principalmente dal nome dei loro costruttori, si sollevano in alto per portare rovina e paura ai nemici e, con uno slancio rapidissimo, si nascondono tra le nubi; da lì, ora sulle schiere nemiche, ora su città fortificate, lanciano fulminei bombe. Quanti danni nel medesimo istante tra le truppe o nelle stesse città! [9]

Gli aeroplani, come le mitragliatrici, i carri armati e i gas, determinarono in tutti gli eserciti perdite molto elevate. Per questo divenne fondamentale l'azione della Croce Rossa. Nei primi mesi del 1915, quando l'Italia non era ancora in guerra, Marco Galdi dedicò una poesia Ad milites “Cruciferos”, ai soldati della Croce, descrivendo in modo vivido il loro operato [10].  

Si scatena tutto l'orrore, assordato esso stesso

dalla strage, ahimè, sui campi di battaglia mille gemiti

risuonano da bocche ormai deboli e scorrono via le

ultime parole dei moribondi. […]

Voi tuttavia quante prede rapite

alla strage cruenta, voi che aiutate

i feriti, anche quando tutt'attorno cade

una pioggia di ferro!     

Salve, saggia schiera sotto l'insegna della Croce

Rossa, solerte, tutrice della santa pietà:

aiutaci tu a riannodare nel mondo i legami spezzati

del genere umano! [11]

Gli orrori della guerra, come si capisce da questi versi, erano noti a tutti, ma alcune nazioni speravano di sfruttare conflitto in atto per risolvere secolari dispute coi vicini. È il caso dell'Italia. Nel nostro paese l'inizio delle ostilità, come è noto, fu preceduto da un acceso dibattito tra neutralisti e interventisti. La Chiesa Cattolica cercò in tutti i modi di evitare il conflitto. Per questo non sorprende trovare, nei primi mesi del 1915, numerosi testi latini che hanno come tema la pace. Il governo italiano, tuttavia, non ascoltò questi consigli. Il 24 maggio 1915, alle quattro di mattina, da Forte Verena venne sparato il primo colpo di cannone contro gli austriaci: l'Italia era in guerra. Subito iniziarono a comparire discorsi, articoli e poesie (anche latine) che incitavano i soldati a combattere. Tali testi sono solitamente scritti da laici, ma ci furono alcune eccezioni. Una di queste è rappresentata da Giambattista Meotti (1867-1935), sacerdote bresciano che scrisse alcuni brevi epigrammi patriottici. Qui ne ricordo tre.

Una guerra giusta per dei giusti confini [12]

Il popolo italiano, forte della fede e del giusto diritto,

rivendica per sé quegli equi confini che la natura gli ha dato.

Vincere o morire [13]

Adesso bisogna vincere o soccombere a una morte onorevole:

Non per altra via si arriva alle stelle.

Contro un soldato pavido [14]

Osa agire, soldato, non farti spaventare dalla tua ombra!

In guerra non hanno mai eretto un monumento al pavido.

In queste poesie la retorica bellicista è notevole. La guerra è definita giusta, si parla di confini naturali, di morte onorevole, di monumenti al valore. Meotti dice persino che il valore (virtus) è l'unico modo per andare oltre le stelle (letteralmente astra transvolare), concetto che difficilmente si può armonizzare coi dogmi del Cristianesimo. Ma all'epoca non si andava troppo per il sottile, la guerra impose al paese uno sforzo enorme e c'era bisogno di ogni possibile incoraggiamento ai soldati. Infatti la vita dei militari italiani fu fin da subito durissima, con scontri tra le montagne del Trentino e sulle pietraie del Carso. Le trincee entrarono presto a far parte anche del panorama italiano. Alla vita di trincea è dedicata una breve lettera latina, scritta da un soldato francese all'inizio del 1915.

Quei soldati, che sono in prima linea, o in trincee assai vicine al nemico, di giorno e di notte fanno la guardia a turni, sono occupati in altri servizi o riposano. A intervalli regolari, poi, dalla prima linea torniamo nelle retrovie. Lì possiamo pulire le armi, cambiare i vestiti o lavarci e ci è permesso dormire tutta la notte. Durante il giorno ci sono esercitazioni e ispezioni dei soldati, inoltre si scavano trincee secondarie e vengono costruiti steccati e barriere con pezzi di legno intrecciati [15].

Questa è un'efficace descrizione della guerra dal punto di vista di chi la combatteva. Ma chi stava a casa come viveva il conflitto? Un carme latino di Camillo Morelli (1885-1916) può aiutarci a capirlo. L'autore, professore di latino al Liceo Militare di Roma, allo scoppio delle ostilità fu arruolato come sottotenente degli Alpini. Tra il 1915 e il 1916 scrisse una poesia intitolata Quinque Sorores. Racconta di cinque sorelle, che filano la lana e parlano del fratello al fronte. Sono preoccupate perchè non arrivano sue notizie, temono il peggio. Una delle sorelle confessa che all'inizio della guerra era un'interventista e che ha incitato il fratello a partire. Ma non si aspettava un conflitto tanto crudele. 

“Io stessa (e voi lo sapete), quando il popolo italiano infine

abbandonò la sua pigra inerzia e impugnò le armi

a lungo negate, partecipai, sebbene donna, al furore

popolare e appoggiai gli audaci propositi di nostro fratello,

gli consigliai di andare laddove il suo cuore

saldo e generoso lo spingeva. Lo chiamai persino Marte.

Ora però... Chi avrebbe mai detto che la guerra sarebbe stata tanto

lunga e che avrebbe falciato una messe tanto grande di giovani? [16].

Nello stesso momento il fratello è in trincea e vede a pochi metri il cadavere di un nemico. Poi comincia a nevicare.

La neve, ormai alta, cadendo

aveva quasi completato il suo lavoro: tutte le cose erano pure,

fin dove arrivava lo sguardo. Le membra insanguinate, composte in

una quiete delicata, erano nascoste, le braccia tese sembravano

simulare una bianca croce. Allora il nemico disse al nemico:

“Pace”. Poi, un'altra volta: “Che la pace sia con te”.

Ma sulla sommità della montagna

gli alti pini gemevano sotto un vento rabbioso [17].

Purtroppo Camillo Morelli non sopravvisse alla guerra. Il giovane latinista, infatti, morì il 22 settembre 1916. Tra i tanti lavori che lasciò incompiuti c'era anche questa poesia, scritta in un latino limpido ed elegate. Nel 1918 venne pubblicata sulla rivista Atene e Roma, tributo postumo a uno dei tanti giovani il cui futuro venne distrutto dalla guerra.

1916: OSTENTANT OMNIA LETUM

Nel 1916 il conflitto continuò più feroce che mai. Uno degli scontri più celebri di quest'anno fu la battaglia di Verdun. Luigi Taberini, professore al Regio Ginnasio di Ancona, descrive la battaglia in un suo carme, in cui si sofferma sulle spaventose perdite tedesche, che, come si saprà poi, si aggirarono attorno ai trecentomila uomini.

Seicento cannoni bombardano i francesi,

ma i prussiani con una grandine di ferro

si affaticano invano, infatti i coraggiosi francesi

proteggono la patria con le viscere. [...]

Le schiere dei prussiani corrono veloci,

la gioventù tedesca cade, è uccisa;

dense caterve di uomini giacciono a terra confuse,

i sopravvissuti fuggono tremanti. [...]

Città, che hai retto ad attacchi

tanto tenaci, ma sempre inutili e stolti,

Verdun, fama imperitura ti accompagnerà

sempre in ogni epoca [18].

Nel 1916 ci fu un altro rovescio per gli Imperi Centrali, di tutt'altro genere. Infatti il 21 novembre Vienna fu scossa dalla morte dell'imperatore Francesco Giuseppe. La notizia suscitò una certa gioia in Italia, come si può comprendere leggendo la poesia In funere Francisci Ioseph di Domenico Tinozzi (1858-1953), deputato e umanista italiano. Questo carme venne pubblicato sulla Rivista Abruzzese nel febbraio 1917 con una traduzione italiana di Luigi Illuminati, che ora leggo.

Due nomi ti diero, perfido Cesare, belli,

  ch'hanno sì dolce suono, culto sì grande ancora;

simboli di sincero, d'umile spirito al mondo

  e di pietoso cuore candidi e puri segni.

Ma la pietà dell'uomo lungi dal tuo petto fu sempre,

  non una volta ahi! mite agli uomini preghi.

Della feconda pace rapisti i premi alle genti,

  posti in oblio i buoni, re scellerato, esempi.

Mai sia, re della forca, la tua progenie felice:

  questo non fausto augurio cantino tutti ovunque [19].

Francesco Giuseppe non riscosse mai eccessive simpatie in Italia: al suo nome erano legate le persecuzioni dei patrioti italiani, la battaglia di Solferino e la sconfitta di Lissa. Nel luglio del 1916, in Italia era giunta la notizia dell'impiccagione di Cesare Battisti. Pochi mesi dopo Francesco Giuseppe moriva: non sorprende trovare scarsa compassione nei confronti di questo “re della forca” (in latino furcifer). La figura di Francesco Giuseppe è interessante anche perché permette di introdurre un tema poco indagato: quello degli anziani di fronte alla guerra. L'imperatore austriaco, infatti, aveva continuato a svolgere i suoi compiti fino alla morte, nonostante avesse più di ottant'anni. Ma cosa accadeva agli altri uomini che volevano servire la patria anche se troppo vecchi per combattere? Una risposta è data da Joseph Alfred Bradney (1859-1933), uno storico gallese che prese parte al conflitto a più di cinquant'anni. Durante il suo soggiorno in Belgio scrisse un libro intitolato Noctes Flandricae, ispirato alle Noctes Atticae del romano Aulo Gellio (II secolo d.C.). Ebbene, Bradney nel 1916 scrive una poesia che testimonia la condizione di molti suoi coetanei, considerati troppo anziani per andare in battaglia.

La gloria non avvolge le vite da noi vissute,

né il fato ci permette di recarci in battaglia.

Mentre i giovani combattono, mentre si svolgono guerre crudeli,

l'amaro destino ci trattiene, infelici, a casa. [...]

Il tempo in cui fummo giovani ormai è passato e noi,

sebbene senza capelli bianchi, siamo chiamati anziani [20].

Bradney dà voce ai pensieri degli uomini della sua generazione, cresciuti durante l'età aurea dell'Impero Britannico. Sicuramente anche molti giovani avevano questo stesso desiderio di combattere, tuttavia è lecito pensare che alcuni sarebbero volenieri rimasti a casa, visto l'impressionante numero di morti, feriti e mutilati. Tutti questi lutti, inoltre, sembravano inutili: negli ultimi mesi del 1916 in molti avevano l'impressione che la guerra dovesse essere infinita. Così tanti intellettuali europei esortarono gli stati ad accettare una pace di compromesso, come avviene nel lungo carme latino Ad populos Europaeos di Francesco Sofia Alessio (1873-1943), insegnante calabrese. Il poeta si rivolge all'Europa, chiedendole il motivo di tante devastazioni.

Pazza Europa, dove vai,

rapita da un cieco impeto? Quale furore ti ha

spinto a creare tanti eserciti,

e a insozzare le tue mani con questa strage? [21]

La guerra, ormai, infuria in terra, in cielo, in mare e sotto il mare; le stragi sembrano non avere fine. Così Sofia-Alessio esorta l'Europa a fermarsi, finchè è ancora in tempo.

Europa, insomma, se hai ancora un po' di senno,

abbandona le tue abitudini feroci; trasforma

le nefande mitragliatrici in curvi aratri;

allo stesso modo, apri di nuovo agli uomini le fabbriche.

Ascoltate, popoli: una volta voi avevate

una patria ancestrale, nelle terre dell'alba:

i vostri padri abitarono sull'Eufrate;

una volta tutti avevano una sola lingua [22]

Gli ultimi versi sono molto importanti. Infatti qui Sofia-Alessio fa riferimento alle comuni radici ebraico-cristiane dell'Europa, più nello specifico ad Abramo, che viveva con la sua famiglia a Ur, sull'Eufrate. Il riferimento a una lingua comune può avere due spiegazioni. La prima, più immediata, è che il poeta voglia alludere all'episodio della Torre di Babele La seconda, secondo me più probabile, è che il poeta qui voglia alludere al latino, lingua in cui è scritto il carme, simbolo della perduta unità e concordia dell'Europa.

1917: CEDANT ARMA TOGAE

Siamo animati dalla cara e soave speranza di [...] giungere [...] quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, appare inutile strage [23]

Papa Bendetto XV il 1 agosto 1917 si rivolgeva ai capi dei popoli belligeranti con queste parole, purtroppo destinate a rimanere inascoltate. L'appello, per poter essere subito compreso da tutti, non fu scritto in latino, la lingua ufficiale della Santa Sede, bensì in francese, la lingua della diplomazia. Tuttavia un poeta latino, Gennaro Aspreno Rocco (1853-1922), compose un carme ispirato alle parole del papa. Ecco i versi più significativi:

O populi, o Reges, jam finem imponite bello.

Quot lugent patres gnatorum morte suorum!

Quot miserae matres! Pueri innuptaeque puellae!

Quot lacrimas fundunt fraterna clade! Quot eheu!

Amissis sponsis, implent ululatibus auras

Sponsae infelices! Heu! Luctus regnat ubique!

Undique proveniunt plangores, undique fletus!

O popoli, o re, ponete fine a questa guerra!

Quanti padri piangono la morte dei figli!

Quante madri disperate! Quanti bambini e giovani fanciulle!

Quante lacrime versano a causa di questo massacro tra fratelli!

Quante spose infelici, persi i mariti, riempiono l'aria

coi loro gemiti! Ahimè, il lutto regna ovunque!

Ovunque si odono grida di dolore, ovunque pianto! [24]

La guerra viene definita fraterna clades, massacro fraterno. Questo è un sentimento non raro nei poeti latini, come abbiamo visto, specialmente se sacerdoti, ben consci che i popoli europei coinvolti nel terribile conflitto culturalmente e religiosamente appartenevano alla stessa famiglia. Nonostante questo appello la fraterna clades continuò. Il 1 febbraio 1917 la Germania dichiarò la guerra sottomarina indiscriminata, affondando tutte le navi (nemiche e neutrali) che portavano rifornimenti all'Intesa. Gran Bretagna e Francia si trovarono così ad affrontare un nuovo nemico: il sommergibile. A questa arma F. Holler dedicò un carme intitolato Piscis-U (traduzione approssimativa di U-Boot), in cui descrive la nuova arma usata dai tedeschi.

All'improvviso è comparso un

nuovo portento nel mare.

Incute grande terrore

e colpisce come un barbaro.

Marte, il distruttore, lo creò

usando l'ingegno tedesco

È chiamato – lo stesso nome

suona in modo orribile – U-Boot

Naviga per ogni mare,

lo spinge un solo scopo:        

affondare tutte le navi 

nemiche che vede [25].

I sommergibili, però, non erano il solo motivo di preoccupazione per l'Intesa. La Russia, infatti, era da mesi lacerata dalla guerra civile e sembrava prossima alla resa. Grazie a questo gli austriaci poterono spostare sul fronte italiano molte truppe. Con esse il 24 ottobre 1917 venne lanciata un'offensiva che entrò nella storia come la Battaglia di Caporetto, forse la più grave disfatta mai subita dall'esercito italiano. Per gli Imperi Centrali, invece, questa fu una grande vittoria, che Friedrich Holler ricorda in un suo carme intitolato In victoriam ad flumen Sontium partam (Alla vittoria ottenuta sul fiume Isonzo

È infine giunto il giorno dell'ira,

che vendicherà la rottura del patto?

Senti venire verso di te la violenza del fato,

popolo accecato da una selvaggia cupidigia? [...]

Come ti ha ingannato la speranza di aver già

proteso le tue cupide mani verso la punta dell'Istria!

Ora da qui le disordinate schiere di Cadorna

si volgono in fuga lasciando ingenti

spoglie sugli alti passi delle Alpi, mentre

si precipitano giù verso la pianura italiana! [26]

Holler ricorda qui la rottura del patto della Triplice Alleanza (scelus rupti foederis), ovvero l'ingresso in guerra dell'Italia contro i suoi ex alleati, e cita la selvaggia cupidigia (fera cupido) che a suo dire anima gli italiani: così era visto oltre le Alpi il desiderio di liberare Trento e Trieste. La sconfitta di Caporetto fu un duro colpo per il morale dell'Italia. Infatti c'era il rischio concreto che gli austriaci dilagassero nella Pianura Padana. Ma il 10 dicembre da Trieste arrivò una buona notizia, che rincuorò la nazione. Quella notte, infatti, il tenente di vascello Luigi Rizzo (1887-1951) riuscì a entrare nel porto di Trieste al comando di due motosiluranti e ad affondare la corazzata austro-ungarica WienAll'impresa è dedicata una poesia del gesuita Lorenzo Rocci (1864-1950), insegnante, grecista e latinista, noto soprattutto per aver composto, dopo venticinque anni di duro lavoro, il Vocabolario greco-italiano, usato ancor oggi nei licei. Rocci narra con notevole pathos l'impresa di Rizzo, descrivendone dettagliatamente le varie fasi. Riporto qui i versi che immortalano l'affondamento della Wien.

Rizzo volge le sue forze e il suo animo all'ardita

impresa, e, avvicinandosi alla nave nemica con grande abilità,

spera di infliggerle una ferita mortale.

Dalla sua motosilurante punta due siluri e li lancia.

Questi attraversano lo specchio d'acqua in linea retta,

tanto veloci da essere a stento immersi sotto la superficie del mare.

A causa della loro rapidità non si riesce a vedere chiaramente

la loro traiettoria e il loro bersaglio. I giovani italiani, silenziosi,

sono in preda all'ansia. Ma i siluri si conficcano

nella Wien, che, dilaniata profondamente, tra onde violente

viene sepolta dall'acqua, mentre è avvolta in un devastante incendio [27]

Vale la pena di notare la finezza narrativa di Rocci, che mantiene la suspence il più possibile: prima immagina i pensieri di Rizzo, poi rivela che non si riuscivano a veder bene i siluri e infine indugia sull'ansia provata dai marinai italiani. La tensione è rotta all'improvviso, l'atmosfera di silenzio e segretezza che regnava fino a quel momento è lacerata dall'esplosione della Wien, che affonda nello spazio di due versi e mezzo. Gli austro-ungarici avevano una nave in meno, ma la guerra andò avanti. I soldati si accinsero così a trascorrere un altro Natale in trincea, lontano dai propri cari. Alfredo Bartoli (1872-1954) descrive i sentimenti dei militari e delle loro famiglie in un carme intitolato Nox Natalicia, una delle più toccanti poesie latine sulla Prima Guerra Mondiale. La trama è semplice: la moglie di un soldato, con i suoi due figli piccoli, va dai genitori per festeggiare la Vigilia. Tutti sono felici, tranne lei, che pensa al marito lontano.

Il volto di una persona, tuttavia,

era più triste, come se il cielo sereno fosse stato coperto da una nube;

una donna, sola, evitando la compagnia, sedeva in disparte,

infelice, sembrava pensare con tutto il cuore

a cose diverse dai divertimenti che la circondavano [28] 

A questo punto l'attenzione del poeta si sposta sul marito della donna, che è appena stato catturato dai nemici mentre, travestito, spiava le loro postazioni. Dopo un processo sommario viene condannato a morte. Intanto arriva la mezzanotte, a casa si aprono i regali e un bambino recita una poesia. La moglie del soldato, però, ha una sorta di visione e scorge l'albero di Natale trasformarsi nella forca del marito, impiccato proprio in quell'istante.

In quel momento la donna vide emergere nel legno

crudele una figura; quale? Tutto il suo cuore

tremava, come è naturale, ma non distolse il volto dall'albero nero;

e lentamente scorse qualcosa di noto nel volto dell'uomo impiccato.

Sebbene i capelli gli fossero appena stati tagliati con una rozza forbice,

nonostante fosse pallido in volto e la morte gli spalancasse gli occhi,

egli le si fece più vicino, come per essere riconosciuto: era suo marito! [29]

La guerra era anche questo, morte nel giorno della nascita di Cristo. Prima di passare al 1918, però, vale la pena di ricordare un episodio di tono molto diverso, avvenuto nel dicembre 1917 in Belgio. A quel tempo Joseph Alfred Bradney era incaricato di sovrintendere alle attività agricole che si svolgevano a ridosso del fronte, per garantire ai civili e ai militari approvigionamenti costanti. Ai suoi ordini aveva alcuni soldati gallesi che, a causa dell'età o di ferite, lavoravano nei campi. Alcuni di loro conoscevano male l'inglese; infatti nei villaggi da dove venivano si parlava solo in gallese, una lingua celtica molto antica. Questo creò a un soldato di nome John Williams qualche problema, come racconta Bradney.

Questi [Williams], una sera, dopo che aveva raccolto rape per tutta la giornata, stava tornando al suo alloggio coperto di fango, quando gli andò incontro un uomo della polizia militare, che gli chiese chi fosse e cosa stesse facendo. Mentre il gallese stava tentando di rispondere, il poliziotto lo immobilizzò, affermando che un soldato incapace di parlare correttamente la lingua inglese doveva essere una spia tedesca. Così lo portò con sé e lo chiuse in carcere. Il giorno seguente venne portato davanti a un ufficiale, cui spiegò la situazione. All'epoca poco distante dalla prigione c'era un accampamento in cui era acquartierato un battaglione gallese. L'ufficiale chiamò un soldato che sapeva il gallese. Questi capì subito come stavano le cose e la sospetta spia fu rilasciata. Dopo pochi giorni la storia si ripeté. Infatti era arrivato un nuovo poliziotto militare, che portò il gallese nello stesso carcere, dove fu condotto dal medesimo ufficiale di prima [30]

1918: SIC ITUR AD ASTRA

Nei primi mesi del 1918 l'Europa era esausta. La guerra non accennava a finire e il peso delle ostilità ricadeva sempre più sulla popolazione. Nell'inverno 1917-1918 in tutti i paesi coinvolti nel conflitto i civili soffrirono per la carenza di viveri e combustibile. Questa situazione era particolarmente grave nelle grandi città, come testimonia una poesia di Cesare Mambretti, un sacerdote milanese. Questi scrive a un amico che vive in campagna e gli descrive le privazioni che deve sopportare:

Non c'è carbone, manca la legna, dappertutto

è lecito tagliare con la sega rami ancora giovani.

Il gas arriva quasi di nascosto, solo a certe ore; 

ma manca subito, proprio quando ce ne è più bisogno.

Il servitore si lamenta nel riattizzare il fuoco morente sotto la pentola,

infatti non c'è combustibile sufficiente per cucinare il cibo.

Per questo solo con difficoltà misere porzioni di cibi cotti riempiono la tavola:

né riusciamo a mangiare i piatti cui eravamo abituati;

mancano lo zucchero, il riso, l'olio, il formaggio,

la carne di pollo e di bue, le parti migliori del maiale [31]

Se la vita dei civili era dura, quella dei militari non era certo da meno. Sul fronte italiano i soldati spesso dovevano combattere due nemici: gli austriaci e la natura. La poesia In Alpibus huiusce tempore belli parla proprio di questo. Venne pubblicata nel 1918 dal ventunenne pistoiese Raffaello Melani (1897-1983). In un latino complesso e altisonante descrive l'ambiente inospitale in cui avvengono i combattimenti.

Nevica sulle cime delle Alpi; i venti, che soffiano sferzanti

e taglienti, scuotono col loro turbine i tronchi degli abeti.

Col loro ululato sibilante piegano le cime degli alberi nella densa

foresta, si scontrano, mescolano le loro braccia antiche.

Intorno l'aria è gelida; guizza a causa di una raffica improvvisa

e poi si abbatte un'altra folata polare. Il vento, furibondo,

sconvolge i fiocchi di neve e li scaglia avanti [32]

Gli austriaci, però, non si fanno scoraggiare dal freddo e si preparano ad attaccare. Il comandante italiano decide di non aspettare il nemico, bensì di andargli incontro ed esorta i suoi soldati a combattere con coraggio.

“Ora, uomini, realizzate un'impresa che rimarrà nel tempo,

la cui fama si spargerà per tutta la terra! Voi avete già respinto molti

attacchi e avete sopportato con coraggio i rovesci della sorte!

Il barbaro, che cerca di dilagare nei territori italiani,

che, malvagio, desidera soggiogare le nostre città

e distruggere con furia selvaggia i monumenti lodati nei secoli,

deve morire sconfitto e lasciare le nostre montagne!

Attacchiamo rapidi, dopo aver lasciato all'improvviso

le trincee lanciamoci impavidi contro il nemico!” [33]

L'esortazione alle truppe prima della battaglia è un topos molto amato nella letteratura latina, anche se spesso i discorsi magniloquenti posti in bocca ai generali romani erano solo frutto dell'abilità retorica dello scrittore, come forse avviene anche in questo caso. Nel 1918 le battaglie fervono dappertutto, in mare, in terra e in cielo. Infatti nel conflitto l'aviazione svolgeva un ruolo sempre più importante, come prova una poesia intitolata Celeuma scritta da Carlo Landi (1872-1930), professore di greco e latino al Liceo Tito Livio di Padova. Questo carme è una versione moderna di una poesia latina di epoca imperiale [34] dedicata ai marinai che solcano le onde. Landi l'ha splendidamente adattata agli aviatori, che solcano impavidi i flutti del cielo.

Hurrah, uomini, il nostro hurrah riecheggi nei cieli!

I nemici portano armi crepitanti tra le nubi nere 

per commettere delitti e stragi orrende nelle nostre città:

Per noi è lecito vendicare tali crimini, è lecito soffocare la barbarie col fuoco!

Hurrah, uomini, il nostro hurrah riecheggi nei cieli!

Il vento del nord soffia con forza terribile, ma noi diciamo hurrah.

La morte ci vola intorno nell'aria scura, ma noi diciamo hurrah.

Che il cielo risuoni continuamente col nostro “hurrah !” [35]

Le imprese degli aviatori erano molto amate dalla propaganda di guerra. Alla retorica patriottica non fu estraneo nemmeno Carlo Tincani, che in una sua poesia celebrò con toni magniloquenti la vittoria sul Piave. In componimenti di questo tipo il mondo è bianco o nero, non ci sono sfumature intermedie. Per comprenderlo basta ascoltare una strofa sulla Casa d'Asburgo:

Ahi razza iniqua di tiranni, estrema

Peste d'Europa! E il male oprar non dunque

Pensi scontare? Né il mal tolto mai

Cedere? Mai? [36]

Parole come queste non sono di certo politically correct, ma permetttono di comprendere i toni della propaganda italiana nell'estate 1918, quando il disastro di Caporetto era una ferita ancora aperta. Le sorti della guerra, in ogni caso, stavano cambiando e il merito era soprattutto delle truppe statunitensi, che ogni mese arrivavano in Europa a decine di migliaia. Ma cosa pensavano i soldati americani, chiamati a combattere in paesi lontani migliaia di chilometri dalle loro case? Una buona risposta è data dalla poesia Rei Publicae Cantus in Tempore Belli; il testo latino è una libera traduzione dell'Inno di battaglia della Repubblica (The Battle Hymn of the Republic), scritto nel 1861, all'inizio della Guerra di Secessione.

Ho letto un vangelo splendente scritto su lame luccicanti:

“Se non ucciderete i miei nemici, voi stessi sarete nemici”,    

Lasciate che il Signore, nato da donna, schiacci il serpente,

poiché Dio si sta avvicinando.

Ha soffiato con forza nella tromba che non suonerà mai la ritirata;

Sta scrutando i cuori degli uomini, Dio siede nel Suo tribunale:

Piedi miei affrettatevi! Che l'anima e la mente esultino!

Il mio Dio è qui [37]

Queste parole sono molto lontane dai toni usati dalla Chiesa Cattolica e si avvicinano più al tedesco Gott mit uns. Infatti non bisogna dimenticare che gli Stati Uniti di inizio Novecento erano un paese profondamente influenzato dalla morale puritana e calvinista. Anche grazie al sacrificio dei soldati americani, nell'autunno 1918 la guerra si avviò verso la sua conclusione. Il 4 novembre l'Austria fu costretta a firmare l'armistizio di Villa Giustie l'11 novembre 1918 anche i prussiani si arresero. La vittoria degli Alleati venne celebrata da numerose poesie latine. Una delle più interessanti è Hunnis victis pax celebratur (Sconfitti i tedeschi si festeggia la pace) di J.A. Bradney.

Finita la guerra, tutti si dirigono in patria,

ogni soldato si affretta per tornare a casa.

La pace, da tempo desiderata, riempie di grande gioia

tutte le case, che siano immensi castelli o umili capanne.

Come gioisce la gente! Come gioiscono il povero bisognoso

e il nobile ricco! Nessuno ha tempo di addolorarsi.

Gioisce la moglie mentre guarda l'amato marito,

la madre saluta il figlio incolume.

Il figlio gioisce nel vedere il padre e la madre,

nel tornare a casa dopo tante battaglie.

Le sorelle festeggiano il fratello, che torna sano

e salvo, e si affrettano a celebrare l'evento [38]

Questo carme ha un aspetto particolare: è stato scritto nel 1917 [39], mentre il poeta militava in Francia. Nei versi appena letti è contenuto quello che allora era solo un sogno: tornare a casa. Nel novembre 1918, finalmente, si avverò. Purtroppo, però, il figlio di Bradney, come milioni di altri giovani, non poté godere di questa pace così a lungo desiderata. Concludendo, oggi, a un secolo dalla Grande Guerra, in tanti rileggono i giornali, le poesie e i diari scritti all'epoca. Con questo lavoro ho cercato di mostrare che anche la letteratura latina ha trattato in modo approfondito il Primo Conflitto Mondiale. Bartoli, Gouffaux, Bradney e Holler, solo per citare alcuni nomi, hanno espresso con nitidezza le vicende di un'epoca tanto buia. Attraverso le loro opere gli uomini e le donne di oggi possono avvicinarsi alla Prima Guerra Mondiale da una prospettiva inusuale, che mette in luce non tanto ciò che divideva le nazioni europee, bensì ciò che le univa, ovvero le comuni radici classiche e cristiane. Desidero concludere questo intervento con una breve riflessione su un motto latino molto usato durante la guerra: Dulce et decorum est pro patria mori (che tradotto significa: È dolce e onorevole morire per la patria [40]). Questa frase di Orazio fu usata, tra gli altri, dal giovane poeta Wilfred Owen (1893-1918) come titolo di un suo carme inglese molto famoso (Dulce et decorum est). Owen, che morì combattendo in Francia nell'ottobre 1918, cita Orazio dopo aver descritto gli effetti di un attacco coi gas e il suo giudizio è lapidario: The old Lie: Dulce et decorum est pro patria mori (L'antica menzogna, è dolce e onorevole morire per la patria [41]). Tre secoli prima un umanista inglese, che, curiosamente, si chiamava anche lui Owen, John Owen (1564-1622), interpretò il motto oraziano in un modo che riassume bene i testi latini esaminati oggi:

Pro patria sit dulci mori licet, atque decorum;

Vivere pro patria dulcius esse puto.

Forse è dolce e onorevole morire per la patria,

ma penso che vivere per la patria sia più dolce [42]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Per lo studio della letteratura neo-latina durante la Prima Guerra Mondiale sono fondamentali due testi: T. Sorbelli, Riflessi della Guerra Mondiale nella letteratura latina contemporanea, in Atti del III Congresso Nazionale di Studi Romani, vol. IV, Istituto di Studi Romani, Roma 1934, pp. 138-164 e T. Deneire, Four Latin “poeti e guerrieri”of the Great War, in D. Sacré – J. Tusiani, Musae Saeculi XX Latinae, Istituto Storico Belga di Roma, Bruxelles – Rome 2006, pp. 107-132. L'articolo di Sorbelli è dotato di un'appendice bibliografica (pp. 160-164) imprescindibile per chiunque voglia indagare i poeti latini della Grande Guerra.

[2] “The lamps are going out all over Europe, we shall not see them lit again in our life-time”, E. Grey, Twenty-Five Years: 1892-1916, vol. II, Hodder and Stoughton, London, 1925, p. 20.

[3] E. Gouffaux, L'Invasion Allemande en Belgique: Ode Latine, Societé Anonyme Belge d'Imprimerie, Bruxelles 1919, p. 4, vv. 29-36. 

[4] A. Rademann, Carmen Bellicum, in Das humanistische Gymnasium, 26 (1915), p. 62, vv. 46-50.

[5] Così avviene anche all'inizio del carme, cfr. A. Rademann, Carmen Bellicum, in Das humanistische Gymnasium, 26 (1915), p. 62, vv. 3-7: Deo Maximo iuvante / Atque nostram rem curante / Proficit duellum. / Vivat Guilelmus dux / Summus Germanorum!.

[6] F. Holler, Discipulis militatum abituris, in Lateinische Gedichte zum Weltkriege, Borgmeyer, Breslau 1935, p. 12, vv. 5-12, 17-20.

[7] G. Tibeauts, Solatia in adversis, in Alma Roma, II (1915), 9.

[8] F. Holler, ln victoriam ad lacus Masuriae a Russis reportatam, in Lateinische Gedichte zum Weltkriege, Borgmeyer, Breslau 1935, p. 10, vv. 1-12.

[9] Subalpinus, De aviatione, in Alma Roma, II (1915), p. 28.

[10] Cfr. anche F.X. Reuss, Pacis in bello ministri, in Nova Tentamina Poetica, Typis Cuggiani, Romae 1922, pp. 10-14.

[11] M. Galdi, Ad milites “Cruciferos”, in Alma Roma, II (1915), p. 104, vv. 5-8, 17-24.

[12]  G.B. Meotti, Iustum pro iustis finibus bellum, in Epigrammaton Libellus, Typis Querinianis, Brixiae 1918, p. 4.

[13]  G.B. Meotti, Aut vincere, aut mori, in Epigrammaton Libellus, Typis Querinianis, Brixiae 1918, p. 5.

[14]  G.B. Meotti, In militem pavidum, in Epigrammaton Libellus, Typis Querinianis, Brixiae 1918, p. 5. 

[15] E. Baudry, Castrenses Epistolae, in Alma Roma, II (1915), pp. 71-72.

[16] C. Morelli, Quinque Sorores, in Atene e Roma, 21 (1918), p. 80, vv. 38-45.

[17] C. Morelli, Quinque Sorores, in Atene e Roma, 21 (1918), p. 84, vv. 191-198.

 

[18] L. Taberini, Veroduni Defensio, in Rivista Abruzzese, XXXII (1917), p. 205, vv. 13-16, 21-24, 33-36

 

[19] D. Tinozzi, L. Illuminati, In funeri Francisci Joseph, in Rivista Abruzzese, XXXII (1917), pp. 84-85.

 

[20] Bradney, In singulos ex nobis qui talem aetatis annum attigerimus ut non liceat ad bellum proficisci, in Noctes Flandricae, Hughes & Clarke, Londoni 1919, pp. 17-18, vv. 1-4, 7-8.

 

[21] F. Sofia-Alessio, Ad Populos Europaeos, in Alma Roma, III (1916), p. 181, vv. 1-4.

[22] F. Sofia-Alessio, Ad Populos Europaeos, in Alma Roma, III (1916), p. 182, vv. 105-112.

 

[23] Benedetto XV, Lettera del Santo Padre Benedetto XV ai capi dei popoli belligeranti, in Acta Apostolicae Sedis, IX (1917), 423 (traduzione italiana). Il testo originale è in francese (Ibid., p. 420): Nous sommes animés d'une douce espérance, celle de les voir [...] ainsi se terminer au plus tôt la lutte terrible, qui apparaît de plus en plus comme un massacre inutile. 

 

[24] G.A. Rocco, Benedicto XV, in Carmi Latini Editi e Inediti, Società Editrice Dante Alighieri, Milano 1929, pp. 323-324, vv. 54-60.

 

[25] F. Holler, Piscis-U, in Lateinische Gedichte zum Weltkriege, Borgmeyer, Breslau 1935, p. 42, vv. 1-12

[26] F. Holler, In victoriam ad flumen Sontium partam, in Lateinische Gedichte zum Weltkriege, Borgmeyer, Breslau 1935, pp. 50-52, vv. 1-4, 11-16.

[27] L. Rocci, IV Idus December A.D. MCMXVII, Società Editrice Dante Alighieri, Milano 1918, pp. 18-19, vv. 224-234.

[28] A. Bartoli, Nox Natalicia, apud Io. Mullerum, Amstelodami 1917, p. 7, vv. 31-35.

[29] Ibid., pp. 15-16, vv. 182-188. 

[30] J.A. Bradney, De Cambrensi quodam, in Noctes Flandricae, Hughes & Clarke, Londoni 1919, p. 25. Cfr. anche T. Deneire, Four Latin “poeti e guerrieri”of the Great War, in D. Sacré – J. Tusiani, Musae Saeculi XX Latinae, Istituto Storico Belga di Roma, Bruxelles – Rome 2006, p. 129.

[31] C. Mambretti, Ad Amicum ruricolam de luctuosis belli vicissitudinibus ex Urbe epistula, in Alma Roma, V (1918), p. 57, vv. 13-22.

[32] R. Melani, In Alpibus huiusce tempore belli, in Atene e Roma, 21 (1918), p. 159, vv. 1-7.

[33] Ibid., p. 162, vv. 98-107.

[34] Celeuma, in Poeti Latini Minores, ed. Baehrens, vol. III, In Aedibus B.G. Teubneri, Lipsiae 1881, XXV, pp. 167-168. La poesia è imitata con rigore filologico, dove possibile sono state tenute le stesse parole.

[35]  C. Landi, Celeuma, in Tempore Belli, Tipografia all'«Università» dei Fratelli Gallina, Padova 1918, p. 7, vv. 9-16.

[36] C. Tincani, Plavis, in IO! Triumphe, Società Editrice Dante Alighieri, Milano 1919, p. 11, vv. 37-40 (traduzione di Carlo Tincani).

[37] C.C. Mierow, Rei Publicae Cantus in Tempore Belli, in The Classical Weekly, 12 (1918), p. 16, vv. 9-16.

[38] J.A. Bradney, Hunnis victis pax celebratur, in Noctes Flandricae, Hughes & Clarke, Londoni 1919, pp. 33-34, vv. 1-12. rimini, è lecito soffocare la barbarie col fuoco!

[39]  Ibid., p. 33: In Francia scriptum a° 1917mo, nam omnes eventuum consequentiam praevidimus.

[40]  Orazio, Carmina, II, iii, 13

[41] W. Owen, Dulce et decorum est, vv. 27-28.

[42]  J. Owen, Epigrammata, I, 48.

 

Il 13 settembre 2014 Papa Francesco si è recato a Redipuglia per onorare la memoria dei Caduti della Grande Guerra pronunciando una esortazione alla pace, con lo sguardo rivolto anche ai giorni nostri, del tutto simile a quella che un secolo fa fecero i suoi predecessori. Ecco alcune passi dell'Omelia tenuta sui gradoni del Sacrario di Redipuglia.